Nel
1996, finiti gli studi universitari in sociologia,
con l’aereo sono atterrato ad Oakland, California, dove ci sono
rimasto per circa due mesi per approfondire la lingua inglese e conoscere
un po’ più da vicino quella parte d’America tanto
decantata nei film e nelle canzoni. Nell’adolescenza avevo ascoltato
con piacere diversi cantautori e gruppi musicali della west coast e
ammirato il cinema holliwoodiano ma, al contrario di molti miei coetanei,
non avevo mai cantato “Sogno California”. Anzi debbo dire
che mi sono avvicinato a quella terra con una sorta di scetticismo e
diffidenza, quasi a voler smitizzare quei luoghi comuni sull’America
che ormai facevano parte dell’immaginario di un po’ tutta
la mia generazione. La zona della Bay Area paesaggisticamente ed architettonicamente
ricorda molto l’Europa, pochi infatti sono i grattacieli e molte
le case in legno a dimensione familiare fra cui spiccano, per la loro
bellezza, quelle in stile vittoriano. San Francisco, una delle principali
città culturali americane, rappresentava anche il luogo dove
negli anni ’50 e ’60 avevano avuto origine i grandi movimenti
Beat e Hippie che avevano rivoluzionato i modi di pensare e di essere
dei giovani non solo americani ma anche europei. Oakland è collegata
a San Francisco dal Bay Bridge e quindi facilmente raggiungibile con
qualsiasi mezzo di trasporto. Come tutte la grandi metropoli americane,
San Francisco bisogna conoscerla bene, perché basta girare l’angolo
e ti puoi ritrovare in quartieri poco raccomandabili, perciò
è bene muoversi con cautela e non fare troppo i curiosi. Un giorno,
quasi per caso, mi sono imbattuto nella pubblicità di una mostra
sulla Beat Generation e ci sono andato. Lì c’era rappresentata
la storia dei vari beatnik da Kerouac a Ginsberg, da Corso a Orlovsky,
passando per Ferlinghetti, Snyder e così via, con esposte opere
d’arte, manoscritti inediti e cimeli vari. Per me quel mondo era
così strano e lontano che non mi sarei mai immaginato che dopo
circa dieci anni avrei potuto incontrare un esponente di quel movimento
proprio a Gubbio, nella mia città natale. Il personaggio di cui
sto parlando è Gary Snyder, nato nel 1930 a San Francisco, uno
dei pochi poeti della Beat Generation ancora in vita, forse grazie proprio
alla sua particolare scelta di vita. Così infatti lo dipingeva
il suo amico e collega Jack Kerouac nel libro I Vagabondi del Dharma
“E soprattutto umanamente mi sbalordiva che quel
formidabile ometto che studiava sul serio poesia orientale e antropologia
e ornitologia e ogni possibile congerie di materie ed era piccolo e
rude avventuriero di sentieri e montagne fosse anche capace di tirar
fuori all’improvviso il suo patetico bel rosario di chicchi di
legno e di mettersi a pregare solennemente, come un santo del deserto
di una volta, certo, ma talmente incredibile a vedersi in un’America
piena di aeroporti e acciaierie. Il mondo non è tanto cattivo,
quando ci sono dei Japhy…”. Japhy era lo pseudonimo
con cui Kerouac parlava di Gary e degli altri confratelli beatnik alle
prese con una ricerca, disordinata ma sincera, di una nuova verità
che si identificava col Dharma dei buddisti, il fine ultimo dell’universo
e della vita. Gary Snyder nei suoi molti viaggi infatti aveva incontrato
personaggi come il Dalai Lama, diversi maestri indù e buddisti
che gli avevano consentito di approfondire la pratica del Buddismo Zen.
Gary, oltre ad essere un apprezzato studioso di poesia e cultura cinese
e giapponese, filosofo della natura incontaminata, è stato colui
che ha aperto la cerimonia del grande evento Human-Be-In dove hippie
beatnick, musicisti, attivisti politici e rappresentanti della controcultura
si unirono ufficialmente tutti insieme. Nel 1975 ha vinto il premio
Pulitzer per la poesia con l’opera L’isola della tartaruga,
nome con cui affettuosamente aveva chiamato la parte del nord America
dove vivono ancora i Nativi americani. Questo libro contiene una poesia
dal titolo Rain in Alleghany che io ho tradotto, musicato e poi cantato
in sua presenza ad uno dei suoi rari reading in Italia. L’esperimento
gli è così piaciuto che non ha esitato nemmeno un attimo
ad inserire la sua voce nel finale della canzone donandole quella completezza
e particolarità che solo lui poteva darle.